Transcript
Speaker 1:
Benvenuti al podcast Ernie Ball. Si comincia ora.
Evan B.:
Ciao a tutti, mi chiamo Evan Ball e sarò il conduttore di Striking A Chord, un podcast presentato da Ernie Ball. In ogni episodio parleremo con una grande varietà di chitarristi e bassisti, con l’obiettivo di offrire spunti, storie, ispirazione, trucchi del mestiere… e magari farvi scoprire qualche nuovo artista. In questa puntata ho il piacere di parlare con Justin Chancellor, bassista dei Tool. Siamo davvero entusiasti e fortunati di poterlo avere con noi, soprattutto considerando che i Tool stanno per pubblicare Fear Inoculum, il loro primo album dopo 13 anni. Tratteremo un sacco di argomenti: parleremo del processo di scrittura dei Tool, di come Justin registra le sue parti di basso e, da uno degli ultimi ad arrendersi, sentiremo cosa pensa oggi della pubblicazione della musica dei Tool sulle piattaforme di streaming. Parleremo anche di quando, quasi 25 anni fa, Justin ricevette l'invito a unirsi ai Tool… ma quasi rifiutò. Ci racconterà quella storia — e molto altro. Quindi, senza ulteriori indugi, signore e signori… Justin Chancellor.
Evan B.:
Benvenuto al podcast, Justin Chancellor.
Justin C.:
Grazie per l’invito.
Evan B.:
Va bene. Prima di parlare del nuovo album, vorrei fare un salto indietro nel tempo. So che ti sei unito alla band nel 1995.
Justin C.:
Esatto.
Evan B.:
Vorrei tornare indietro di un paio d’anni per dare un po’ di contesto. L'inizio degli anni ’90 è stato un momento decisivo per la musica rock in generale. L’underground iniziava a emergere in tante realtà diverse, e molte band che prima non rientravano nei canoni del mainstream cominciavano a raggiungere un pubblico vasto. C’era la scena grunge, quella punk che stava venendo alla ribalta, e anche il metal stava cambiando. Vedo i Tool come una band che non si inseriva perfettamente in uno di questi generi, ma che faceva chiaramente parte di quel panorama. Ricordo di aver scoperto i Tool su MTV con il video di Sober, come probabilmente è successo a molti — almeno tra chi ha una certa età. Sembrava qualcosa di nuovo, quasi inquietante e tagliente… non solo la musica, ma anche le immagini del video.
Evan B.:
All’inizio, suonavi in una band chiamata Peach, che in quel periodo era in tour con i Tool.
Justin C.:
Beh, non proprio un tour, ma facemmo qualche concerto insieme.
Evan B.:
Ah, capito. Però è da lì che è nato il primo contatto, giusto?
Justin C.:
Esatto.
Evan B.:
Okay.
Justin C.:
È stato più un favore che un posto guadagnato sul campo.
Evan B.:
Ok. Sono solo curioso di sapere come vivevi quell’epoca. Sembrava che ci fosse un cambiamento nell’aria? Hai avuto la sensazione, in quel momento, di trovarti alle fondamenta di qualcosa di grande?
Justin C.:
Sì, in effetti sì. Per la prima volta stavo davvero cercando di fare il musicista a tempo pieno. Avevo frequentato l’università per qualche anno, finché non ho capito che, almeno per me, rappresentava un vicolo cieco. Così ho lasciato e mi sono trasferito a Londra per dedicarmi completamente a una band. Ricordo che, prima di allora, erano usciti album come Appetite for Destruction dei Guns N' Roses, Nevermind dei Nirvana… tutta quella roba era enorme nel periodo in cui lasciai l’università — o college, come lo chiamate in America. Questo sarà stato attorno al ’92, tra il ’92 e il ’93. Stavo iniziando a scoprire sonorità più pesanti. In quel periodo ero molto preso da The End of Silence della Rollins Band. E, per pura coincidenza, poi i Tool andarono in tour proprio con loro.
Justin C.: In sostanza, ero davvero entusiasta all’idea di suonare in una band. Molta della musica di quel periodo rientrava esattamente nei miei gusti, capisci. Quando mi trasferii a Londra, suonavo già con i Peach. In quel momento, in realtà, eravamo un po’ più “rilevanti” rispetto a quanto saremmo stati qualche anno prima. Il nostro stile era una sorta di miscela indie: io ero molto attratto da tutto quel filone più pesante, mentre un paio degli altri ragazzi erano più orientati verso cose alla My Bloody Valentine, quel tipo di shoegaze che stava andando forte in quel periodo. Era una via di mezzo tra l’indie e il rock più pesante. E paradossalmente, quella combinazione, in quel momento, funzionava anche un po’ per caso. Non abbiamo mai ottenuto un grande successo, però sì… era emozionante creare qualcosa in cui credevi davvero, qualcosa di molto organico, nato da noi quattro. E in effetti, in un certo senso, era anche rilevante. Perché se fosse successo dieci anni prima, probabilmente avremmo dovuto scegliere una direzione o l’altra.
Evan B.:
Certo. Esatto, esatto. Ok, quindi nel 1995 Paul D’Amour lascia la band.
Justin C.:
D'Amour.
Evan B.:
D'Amour?
Justin C.:
Yeah.
Evan B.:
Ok, lascia i Tool. E da quel momento cosa successe?
Justin C.:
Praticamente ricevetti una telefonata. Mi dissero che avevano chiamato a casa mia. Penso che in quel momento fossi impegnato in un concerto con i Peach. “Devi richiamare i ragazzi dei Tool.” A quel punto loro erano stati davvero gentili con noi, come amici. C’è un po’ di retroscena in più, ma avevamo fatto un paio di date aprendo i loro concerti a Londra. Quando suonavano lì, avevano chiesto ai Peach di fare da band di supporto. Con l’aiuto di alcune persone vicine a loro, eravamo anche volati a Los Angeles e avevamo fatto quattro concerti come Peach — ed è stato incredibilmente emozionante. All’epoca si poteva ancora fumare in aereo, ricordo che stavo seduto in fondo a fumare sigarette per tutto il viaggio da e per Los Angeles, ordinando da bere. Eravamo solo noi quattro, super emozionati per tutto quello che stava succedendo.
Justin C.:
Comunque, ricevetti quella chiamata e li richiamai, piuttosto nervoso. Mi chiedevo: “Che cosa vorranno?”. Era Maynard, credo… sì, penso fosse lui. E mi disse: “Vorremmo che venissi qui a fare un’audizione per entrare nella band.” Era davvero troppo da assimilare tutto in una volta. Ricordo che, proprio durante quella prima telefonata, istintivamente risposi: “Oh no, non posso farlo. Non posso farlo.” Una reazione dettata dalla paura. Ero completamente intimidito. Poi, a dire il vero, i dettagli di quel momento oggi sono un po’ confusi.
Justin C.:
Quindi, insomma, alla fine dissi: “Grazie mille, davvero gentili da parte vostra, ma non credo. Sono troppo impegnato qui."
Evan B.:
Quindi, durante quei concerti in cui suonavate insieme, avevate modo di interagire molto? Vi siete trovati subito in sintonia? [crosstalk 00:06:03]
Justin C.:
Sì, eravamo più o meno amici già da prima. Mio fratello era amico di Matt Marshall, il tipo che li aveva messi sotto contratto. Si erano conosciuti per caso in America anni prima, ma poi si erano ritrovati entrambi a lavorare nell’industria musicale, nell'ambito discografico. Quando Matt firmò con i Tool, noi sentimmo parlare di loro — siamo stati tra i primissimi in Inghilterra ad avere la loro demo. Quando poi vennero a suonare da queste parti e ottennero un bel successo, li portammo al pub e passammo un po’ di tempo insieme. È così che ci siamo conosciuti e siamo diventati amici. In realtà tutto è nato in modo molto poco musicale, se vogliamo. Gli facemmo fare un po’ di giro in città, così, alla buona.
Justin C.:
Sì, inizialmente avevo rifiutato. Raccontai la cosa a mio fratello, in qualche modo, e lui prese letteralmente la metropolitana e venne di corsa a casa mia, iniziando subito a urlarmi contro. Mi diceva: “Sei impazzito?”.
Una parte di me era davvero molto determinata. Stavo scrivendo musica con la mia band, avevo lasciato l’università per seguire questo percorso, per fare il musicista, e ci credevo davvero.
Quindi, in parte, non volevo semplicemente alzarmi e andarmene. C’entrava quasi una questione morale, e anche il rispetto per quello che stavamo costruendo insieme.
Justin C.:
Mio fratello mi disse: “Guarda, è una follia. Devi accettare. Devi provarci.” Mi disse: “Che importa? Anche se fallisci, è comunque incredibile che ti abbiano chiesto una cosa del genere. Devi andarci e provarci.” Io, in realtà, non mi sentivo affatto al loro livello dal punto di vista musicale, capisci?
Evan B.:
E tutto questo significava anche trasferirsi in un altro paese.
Justin C.:
Esatto, assolutamente.
Evan B.:
Non proprio una cosa da poco.
Justin C.:
Non era affattouna cosa da poco. Voglio dire, la situazione non era proprio straordinaria, ma ero piuttosto felice di trovarmi in quella fase in cui non ero più bloccato nel ciclo infinito dell’istruzione. Studiavo inglese, storia, studi russi… ma dove stavo andando davvero?
Tutto quello che facevo era pensare alla musica in modo ossessivo. Quindi, in quel momento, ero felice a Londra. Ero disoccupato, prendevo il sussidio, e pensavo: “Sì, finalmente faccio parte della gente vera.” In parte è stato uno shock. Pensavo che stessimo davvero andando da qualche parte. Devo chiarire una cosa, in effetti: i Peach, a quel punto, si erano già sciolti. Avevamo dato vita a una nuova band. Credo che il nostro cantante, Simon, avesse deciso di andarsene per dedicarsi… era un professore di geografia.
Evan B.:
Eh già, pazzesco.
Justin C.:
Lui, in un certo senso, aveva mollato. Così io e Ben Durling, il mio chitarrista — che conoscevo dai tempi della scuola — abbiamo finito per formare una nuova band, chiamata Sterling. In realtà, ci era stato offerto un contratto discografico da Beggars Banquet. All’epoca era piuttosto emozionante. Era qualcosa di nuovo. Anche questo era un elemento molto intenso: eravamo finalmente arrivati a qualcosa, ci avevano offerto un contratto. Quindi, era quasi troppo facile dire: “No, non posso. Ho già un contratto.” Ma mio fratello insisteva davvero, perché sapeva quanto significasse per me, e quanto mi piacessero i Tool. Così mi ritrovai nella difficile situazione di doverli richiamare e dire: “Vi dispiace se ci ripenso? Se venissi lo stesso?” Il che, come ti dirà chiunque, normalmente non funziona. La gente ti direbbe: “No, no, no. Hai fatto la tua scelta.”
In genere, a quel punto, hanno già voltato pagina, capisci?
Justin C.:
Comunque, furono davvero disponibili e mi dissero di sì. È così, in sostanza, che alla fine sono partito e sono andato da loro. [crosstalk 00:09:33].
Evan B.:
Fantastico. E sei entrato praticamente mentre stavano registrando Ænima, giusto?
Justin C.:
Avevano già scritto circa tre canzoni e mezzo per Ænima.
Evan B.:
Quindi hai partecipato al processo di scrittura di quell’album?
Justin C.:
Sì. Quando dissi: “Ok, vengo”, mi presero il volo e mi dissero: “Vieni per una settimana, farai l’audizione.” Mi mandarono tre canzoni e mezzo su una cassetta demo. Ricordo di essere seduto sulla metropolitana a Londra, con questo nastro tra le mani, e pensare: “Wow. Ho in mano i nuovi pezzi dei Tool.” A essere sincero, fu davvero folle ascoltarli. C’erano Pushit e Eulogy, ma erano molto frammentati. Non credo ci fosse ancora alcun testo. Anche Ænima era presente, con quel finale… completamente fuori di testa. Dovevo cercare di entrare nel pezzo e impararlo un minimo. Poi mi dissero anche: “Devi portare qualcosa di tuo. Qualsiasi materiale tu abbia scritto, portalo: è ben accetto.” E a quel punto, venni cacciato dalla mia band. Perché non appena dissi che sarei andato a fare quell’audizione… scoppiò il caos. Tutti si arrabbiarono parecchio.
Evan B.:
Sì, è bello sapere che c’era spazio per far entrare qualcuno anche nel processo creativo, non solo come turnista. Non eri lì solo per eseguire: entravi a far parte del progetto, davvero.
Justin C.:
Assolutamente, ed era parte dell’accordo. Me lo spiegarono chiaramente. Mi dissero: “Il motivo per cui il tuo nome è venuto fuori è che tu componi e scrivi musica. Ci piace il tuo modo di suonare il basso. Hai anche un bell’aspetto…” — no, scherzo. “Ci serve qualcuno che partecipi davvero alla scrittura. Abbiamo bisogno di un contributo concreto alle canzoni.” In quel periodo vivevo in un seminterrato ad arco, mi ero trasferito di nuovo a nord di Londra, e mi stavo preparando per partire. Ma nella mia testa il futuro era ancora molto incerto, perché non avevo più una band, e pensavo: “Non c’è modo che io ottenga quel posto nei Tool.” Così ero lì, a scrivere musica freneticamente per il mio nuovo progetto. In realtà ero carico, davvero entusiasta. Pensavo: “Ok, adesso posso finalmente fare esattamente quello che voglio. Mettere insieme qualcosa di mio.”
Passai due settimane completamente immerso in questa prospettiva, concentrandomi sul futuro.
Justin C.:
In realtà, in quel periodo scrissi il riff di Forty Six & 2.
Evan B.:
Oh magnifico.
Justin C.:
Alla fine lo portai con me, e quello fu uno dei primissimi brani che io e Adam scrivemmo insieme, una volta entrato nella band.
Evan B.:
Fantastico.
Justin C.:
Esatto!
Evan B.:
Quindi tutti i fan dei Tool devono ringraziare tuo fratello per averti dato quella spinta decisiva.
Justin C.:
Sì, assolutamente. Grazie, Jim.
Evan B.:
Giusto. Quindi quello era il 1995. E ora dopo quasi 25 anni siete ancora con la stessa formazione, il che è davvero raro e notevole.
Justin C.:
[crosstalk 00:12:12] rarissimo!
Evan B.:
Esattamente.
Justin C.:
Prova a fartene una ragione.
Evan B.:
Già. Le band, per loro natura, non sono mai facili. Hai qualche consiglio per chi suona in una band e cerca di mantenere un certo equilibrio? Come avete fatto voi a superare le divergenze? Immagino che anche voi, nel corso degli anni, abbiate avuto i vostri contrasti, come succede in qualsiasi gruppo. Come si affrontano tutte queste cose?
Justin C.:
Ci sono molte risposte possibili, in realtà. Fortunatamente, da noi tutto è diviso in quattro. Siamo quattro membri alla pari. Nessuno comanda sugli altri. Tutte le decisioni — band di supporto, scaletta, tutto — vengono prese… beh, direi che si potrebbe definire una democrazia.
Evan B.:
Vai pure.
Justin C.:
No, vai tu…
Evan B.:
Stavo per dire… ed è proprio questo il difficile in una band: è come mandare avanti un’azienda con quattro o cinque capi.
Justin C.:
È davvero difficile. Stavo proprio per dirlo anch’io. È una cosa che rende tutto molto complicato. Potresti avere una persona sola al comando, con altri tre felici di far parte del progetto. Funziona bene, magari, ma può anche diventare soffocante dal punto di vista creativo — se sei una persona creativa, intendo. Certo, ci sono persone a cui questo va benissimo. Ma il modo in cui si sono evolute le cose per noi ha reso tutto, da un lato, più difficile… e dall’altro ha anche dato alla band una lunga vita, secondo me. E ad oggi, arrivare a questo momento — è emozionante pensare che venerdì uscirà il nostro nuovo album. Quello che abbiamo appena attraversato è stato probabilmente il periodo più difficile: quando tutti iniziano a invecchiare, hai già raggiunto un certo livello di successo, e ognuno comincia a pensare magari a progetti propri. Maynard, per esempio, ha fatto un sacco di cose sue, anche con altri musicisti. E a quel punto può venirti da pensare: “Ma ne vale ancora la pena? Forse è il momento di andare avanti?”
Justin C.:
Ma credo che tutti, alla fine, si rendano conto che questa cosa è davvero unica. È il massimo che si possa desiderare. Quando sei dentro da 20 o 25 anni, sei già ben oltre la metà del ciclo vitale di una band. E rendersi conto di aver fatto parte di qualcosa di così speciale è qualcosa da custodire, da considerare sacro. Un’altra cosa importante è… ed è difficile, perché siamo tutti artisti, musicisti, quello che vuoi… è tenere a bada l’ego. Perché nel momento in cui l’ego prende il sopravvento e inizi a pensare che tutto ruoti attorno a te, che sia tutto merito tuo… allora capisci in fretta che, quando provi ad andare da solo, le cose non sono poi così belle come quando stavi con gli altri. Certo, sai di aver dato un grande contributo. Ma lo so per esperienza diretta: anche le cose che abbiamo scritto insieme, se le avessi scritte da solo, non avrebbero avuto lo stesso impatto. Ci vuole il contrasto tra personalità diverse, per bilanciarsi a vicenda. È questo che fa davvero la differenza.
Evan B.:
Devo chiedertelo: hai visto Bohemian Rhapsody?
Justin C.:
Sì, l’ho visto.
Evan B.:
C’è una scena bellissima in cui Freddie prova la carriera solista, e poi torna nella band. Rientra e dice: “Ho fatto la mia cosa da solista. Tutti hanno fatto esattamente quello che volevo. Hanno suonato le parti. Ma la verità è che ho bisogno di voi. Ho bisogno delle vostre critiche fastidiose. Ho bisogno che Brian May rielabori le mie parti.” E alla fine…
Justin C.:
Secondo me, quella è stata la parte migliore del film.
Evan B.:
Eatto!
Justin C.:
È stato bellissimo. Certo, è un cliché, e semplifica un po’ tutta la storia… ma è la verità. Quella alchimia che si crea quando le cose funzionano — vale in qualsiasi ambito, ma soprattutto nella musica, nelle band — non te la puoi inventare. Se io fossi entrato nel gruppo e non avesse funzionato, semplicemente non avrebbe funzionato. Capisci cosa intendo? Quindi devi anche saper apprezzare tutto questo. Pensare: “Wow, ok. Se non li avessi richiamati e non ci avessi provato, niente di tutto questo sarebbe successo.” La band sarebbe stata un’altra cosa.
Non sto dicendo che non sarebbe stata di successo, ma il fatto che lo sia stata, devi davvero custodirlo e prenderlo sul serio. Se vuoi fare musica per tutta la vita, se vuoi farne un lavoro e avere successo restando felice, non puoi semplicemente… pensare di essere il centro del mondo e fare quello che ti pare. Devi davvero guardare al percorso che hai fatto, e portargli rispetto.
Evan B.:
Sì, sì. Va bene, facciamo una breve pausa e poi torniamo per parlare del nuovo album.
Evan B.:
L’episodio di oggi è sponsorizzato dall’Ernie Ball Axis Capo, con un design a doppio raggio che si adatta sia alle tastiere curve che a quelle piatte, garantendo un’esecuzione priva di fruscii. Il meccanismo a rilascio rapido consente cambi di tonalità precisi e immediati con una sola mano. Disponibile in quattro finiture. Trova il tuo Ernie Ball Axis Capo nel tuo negozio di chitarre di fiducia. Dai un’occhiata alle note dell’episodio per saperne di più.
Evan B.:
Ok, parliamo del nuovo album, Fear Inoculum. Piccolo avviso per chi ci sta ascoltando: stiamo registrando questo episodio del podcast qualche giorno prima dell’uscita ufficiale dell’album, quindi è probabile che il podcast venga pubblicato subito dopo il rilascio di Fear Inoculum. Se sembro uno che non ha ancora ascoltato l’album… è perché non l’ho ancora ascoltato.
Evan B.:
Bene. Fear Inoculum è stato un grande evento: i Tool pubblicano un album a questo punto della loro carriera. Avete ormai raggiunto una sorta di élite tra le band rock. Acclamati dalla critica, super fan in tutto il mondo, Grammy. Immagino che questo status comporti una certa pressione quando si tratta di rilasciare nuovo materiale. Aggiungiamoci il fatto che l’attesa per questo album è andata crescendo per 13 anni. È vero? Sentite più pressione questa volta rispetto al passato, per cercare di fare tutto alla perfezione?
Justin C.:
Credo di sì, assolutamente. La prima volta che ho partecipato a un album, con Ænima – proprio quello di cui parlavamo poco fa – è stato tutto a tutta velocità, senza voltarsi indietro. Non che non fosse stato ottenuto nulla, ma per me è stato come tuffarsi direttamente nel profondo. Non c’era tempo per avere dubbi, capisci?
Evan B.:
Certo.
Justin C.:
Le persone dicevano: “Va bene così, va bene, avanti, avanti”, e tutto il processo è stato molto più rapido. Quindi sì, questa volta ci sono stati sicuramente dei momenti in cui si ha quella paura di essersi un po’ auto-sabotati, e che la purezza di ciò che rendeva speciale quello che facevamo in quattro sia stata un po’ compromessa dal pensare troppo o dal voler calcolare tutto. La pressione era più legata al desiderio di fare qualcosa di autentico e sincero da parte nostra, piuttosto che a ciò che pensavamo dovesse venire fuori.
Justin C.:
Ovviamente vuoi che alla gente piaccia, ma non credo che sia mai stata davvero quella la pressione. Penso che le persone apprezzino il nostro impegno. Il nostro modo di lavorare, il modo in cui suoniamo e interagiamo… credo che avrebbe comunque avuto un valore, sarebbe stato interessante a prescindere. Ci sono tante band che hanno pubblicato un album “strano” verso la fine della carriera, e la gente lo etichetta come “quello strano”, ma fa comunque parte della loro storia, no?
Evan B.:
Certo.
Justin C.:
Justin C.:
Sì, certo. Abbiamo sempre idee che si accumulano nel tempo. Ci sono brani in questo album che sono stati scritti prima ancora che io entrassi nella band. Ci sono riff che Adam aveva composto e che abbiamo inserito nei pezzi dell’album. Anche mentre scrivevamo, ognuno di noi continuava a produrre idee individualmente. Adesso, con l’iPhone è fantastico per questo. Sul mio computer ne ho a valanghe. C’è davvero tantissimo materiale da rivedere. E Adam è un vero sostenitore di questo approccio. Io invece tendo a tenere la testa bassa e andare avanti, sempre entusiasta per la prossima cosa, quella dopo ancora. Ho una mia filosofia personale: se mi sveglio la mattina e un’idea è sparita — a meno che non l’abbia registrata — significa che non era abbastanza buona da restare.
Justin C.:
E poi c’è anche una certa tranquillità nel sapere che da lì a poco uscirà fuori qualcosa di straordinario. Stai facendo spazio per una nuova idea. Adam, invece, ha una filosofia un po’ diversa: “Ti ricordi quella cosa che avevi scritto? Era fantastica. Te la ricordi?”. E io, il più delle volte, non me la ricordo. Allora lui me la fa riascoltare: “Questa è ottima. Dobbiamo usarla.” È quasi come avere una banca di idee.
Justin C.:
Insieme, questo ci porta anche a qualche frustrazione reciproca. Magari stiamo lavorando su qualcosa di vecchio, e qualcuno propone una nuova idea tipo: “E se facessimo così?”, e si esalta all’improvviso… e gli altri: “Ehi, ehi, rallenta. Mettiamola da parte, adesso stiamo lavorando su questo.” Io tendo a farmi trasportare da questi slanci. È una cosa un po’ da prog rock, no? Quel partire per la tangente…
Justin C.:
Ma sì, ormai non ricordo nemmeno da dove eravamo partiti con la domanda.
Evan B.:
Va benissimo così. Ma da dove arrivano la maggior parte delle tue idee migliori? Ci sono contesti o situazioni particolari in cui ti si accende la lampadina?
Justin C.:
Sì. Ne parlavo con Tim quando abbiamo fatto quella cosa per Ernie Ball…
Evan B.:
Ah, sì.
Justin C.:
Quella… come la chiameresti?
Speaker 4:
String Theory.
Justin C.:
String Theory, esatto. Grazie. A me piace stare all’aperto. Mi piace lavorare la terra, camminare, fare trekking. Amo la vela. Sono proprio un tipo da spazi aperti. E molte idee mi arrivano quando sono solo, immerso nella natura, mentre cammino.
Evan B.:
Senza un basso a portata di mano.
Justin C.:
Esattamente.
Evan B.:
Solo nella tua testa.
Justin C.:
Per me, se passo una serata — cosa che non succede poi così spesso — da solo a suonare il basso, magari bevendo qualche birra, scendo nel mio studio e riesco a tirar fuori qualche idea, idee melodiche, su uno strumento. Ma il più delle volte, molte delle idee che poi finiscono sui dischi dei Tool sono più ritmiche, percussive. Sono battiti, pulsazioni, che mi vengono in mente mentre cammino in giro. E da lì poi costruisco una melodia sopra. Tipo, mi viene in testa un ritmo assurdo, lo conto, lo scompongo. È qualcosa che puoi contare in modi diversi, ma trovi un ciclo. Poi salgo in studio e ci applico sopra una qualche melodia. Di solito esagero con la melodia e poi devo togliere roba. È quasi come un impulso, una pulsazione iniziale, da cui parte tutto.
Evan B.:
Da quello che ho letto, mi sembra di capire che spesso partite da un riff o una progressione di accordi, o da un’idea per una canzone, e poi la esplorate in lungo e in largo. Cambiate ritmo, tempo, firma metrica, strumentazione... È così?
Justin C.:
Sì, assolutamente. Sempre. Fa sempre un po’ ridere quando senti alla radio qualcuno in un’intervista che dice: “Mi ci sono voluti due minuti per scrivere quella canzone.” Ed è bellissimo quando succede, per carità. Ma per noi non funziona così, mai. Non credo ci sia mai capitato. Forse Maynard ha avuto esperienze simili scrivendo testi, non lo so. Anche a me, ogni tanto, è successa una piccola illuminazione tipo: “Ok, questo è davvero figo.” Una cosa uscita quasi dal nulla, senza sviluppo. Ma per quanto riguarda la scrittura dei brani veri e propri, abbiamo sempre sperimentato in ogni direzione possibile. Forse è anche per questo che la band è quello che è: perché a volte parti che scrivo io finiscono per diventare linee di chitarra, o cose che scrive Adam diventano ritmiche per la batteria. A volte ci diciamo: “Quella è la parte di chitarra di Adam? Ok, Danny, prova a suonarla alla batteria come un pattern ritmico. Oppure suonala usando le note dei tuoi pad elettronici. Così Adam può cambiare approccio, e reagire in modo diverso a ciò che sente.”
Evan B.:
Danny è abbastanza fondamentale — senza gioco di parole — nel processo di sperimentazione?
Justin C.:
Oh sì, assolutamente. Siamo tutti costantemente alla ricerca, ci muoviamo attorno alle idee. E ci piace davvero suonare insieme, capisci? È la parte migliore. Quindi in realtà ci divertiamo proprio a sperimentare con tutto quel materiale. È un dato di fatto: se esplori e ti muovi attorno a un’idea, a volte trovi qualcosa che è persino meglio del pensiero iniziale. Altre volte, invece, torni all’idea di partenza e ti rendi conto, senza ombra di dubbio, che era quella la cosa più forte. Quel riff di base, quella pulsazione iniziale che avevi. Hai provato ad aggiungere strati, l’hanno suonata tutti, ma alla fine torni a quel primo spunto. Lo facciamo spesso: esauriamo tutte le altre opzioni prima di arrivare lì.
Evan B.:
Ok. E questo processo di cui stai parlando adesso... è abbastanza separato rispetto a quello vocale? Intendo: musica e voce sono due percorsi a parte?
Justin C.:
Sì.
Evan B.:
Quindi si tratta proprio di fasi separate nel processo di scrittura?
Justin C.:
Sì, lo è. Il gruppo, i musicisti... beh, non che Maynard non sia un musicista, ovviamente. Ma intendo quelli che suonano strumenti — non la voce come strumento. Comunque, per chiunque voglia scrivere linee vocali sopra quello che facciamo, è un processo estenuante, perché tutto continua a cambiare. Non si tratta solo delle melodie o della durata del pezzo: è l’intera struttura della canzone che cambia di continuo. E se stai cercando di scrivere qualcosa di coerente e poetico, pieno di significato e linguaggio, è incredibilmente frustrante se la band continua a cambiare le fondamenta. A meno che tu non stia cantando una canzoncina pop dove ripeti sempre le stesse parole — in quel caso puoi infilarle ovunque.
Justin C.:
Ma sì, in pratica lui aspetta che noi...
Evan B.:
Ok, tipo: “Fatevi prima le vostre cose, poi chiamatemi”.
Justin C.:
Esatto. Dice: “Non chiamatemi finché non siete davvero sicuri di quello che volete.” Ci siamo già passati: gli mandiamo qualcosa, lui inizia a lavorarci sopra, si appassiona a un’idea profonda, emotiva… poi noi continuiamo a modificarla, e gli diciamo: “Abbiamo cambiato un po’ questa parte.” E non è bello. Stavolta abbiamo capito la lezione… Solo che questo ha anche allungato i tempi, perché a un certo punto ci siamo detti: “Ok, ora dobbiamo essere davvero convinti prima di mandargliela.” Quindi ci siamo presi altri due anni tipo: “Va bene, limiamo ancora questo.” Perché una volta che gliela inviamo, per noi non si torna più indietro.
Evan B.:
C’è qualcuno nella band che potresti definire il più perfezionista?
Justin C.:
Non direi.
Evan B.:
No? Ok.
Justin C.:
No, non credo. Direi che siamo tutti… più che perfezionisti, è che le idee creative ci appassionano tantissimo. Quando nasce un’idea e ti piace, te ne innamori, ti ci leghi. Penso sia come per chi dipinge: arriva un momento in cui pensi, “Ecco, è questo.” Ma quando si è in quattro, ognuno ha una visione diversa di cosa sia “quello”. Quindi devi continuamente imparare a lasciar andare. A me capita spesso: torno dalle prove e penso, “È stato incredibile, non ci credo! Abbiamo messo insieme questa parte con quell’altra ed è proprio quello che sognavo.” Una settimana dopo devo già lasciarla andare. Sto ancora lì nel mio studio ad ascoltare quel CD come fosse un piccolo tesoro… ma quella canzone, ormai, è sparita. È cambiata del tutto, perché non era l’idea di tutti. Capisci?
Justin C.:
Anche Maynard a volte ci mandava delle linee vocali che mi facevano dire: “Wow, è perfetto. Si incastra perfettamente con la musica.” Ma poi, sull’album, è tutto completamente diverso. Al momento della registrazione, aveva già cambiato idea su cosa voleva sentire da sé stesso. Quindi bisogna sempre imparare a lasciar andare.
Evan B.:
Magari un album di B-side, un giorno.
Justin C.:
Ah, sì… io ho libretti pieni di CD. Registravamo ogni giorno di prove. Potrebbe interessare a un super fan, ma per chiunque altro sarebbe una cosa noiosa da ascoltare. Però ti darebbe un’idea di quanto il processo sia stato lungo e meticoloso: ripetere, cambiare, provare ogni piccolo dettaglio…
Evan B.:
Certo. E per quanto riguarda i titoli delle canzoni? Sono totalmente affare di Maynard?
Justin C.:
Assolutamente sì. Per quanto riguarda i testi, è tutta farina del suo sacco. Reagisce alla musica. A volte ne parliamo — ci capita di incontrarci qualche volta durante l’anno, prima di andare in studio, per fare il punto della situazione. Ma in genere lui ci chiede suggerimenti ritmici, o magari mi fa contare certi passaggi... A volte non è sicuro del ritmo di qualcosa, quindi gli do una mano a scandirlo. Ma per quanto riguarda la scrittura vera e propria, la parte poetica, è tutto suo.
Evan B.:
Quindi non intervenite davvero sui testi? È il suo campo. Vi fidate di lui, insomma.
Justin C.:
No, no, no. Ne parliamo, certo. Ed è anche una cosa molto stimolante, perché lui comincia a notare dei pattern, delle relazioni tra i numeri e le parole, e da lì partiamo per esplorare. Queste cose poi si riflettono anche nell’artwork. Diventa uno spunto creativo, perché si crea un dialogo: “Cavolo, è pazzesco. Io pensavo questa cosa, tu hai reagito alla musica cantando questo. E adesso ti sto dicendo che, in realtà, è la musica stessa che stava già dicendo quella cosa... matematicamente.”
Evan B.:
Wow, sì.
Justin C.:
Poi parli con Alex Grey, e lui ti dice: “Guarda, sto lavorando a questo dipinto…” Quindi sì.
Evan B.:
Hai accennato all’artwork. Una cosa al volo: è vero quello che si dice in giro? Ci sarà anche una copia fisica del CD?
Justin C.:
Sì.
Evan B.:
Con schermo e altoparlanti integrati?
Justin C.:
Esatto.
Evan B.:
Wow.
Justin C.:
Sì, è epico. È davvero entusiasmante. Penso che oggi riceverò la mia copia.
Evan B.:
Ah, fantastico.
Justin C.:
Non vedo l’ora. L’ho già visto — è assurdo.
Evan B.:
Già che ci siamo: ci sono dei video? Dei veri videoclip per i brani contenuti in quel formato fisico?
Justin C.:
No, no, no.
Evan B.:
Ok.
Justin C.:
Fa parte del packaging. È tipo… non so come definirlo. Una specie di cartellone animato, ma è una canzone da otto minuti.
Evan B.:
Contiene un paio di tracce?
Justin C.:
No, no, no. C’è solo una traccia.
Evan B.:
Ok, solo una.
Justin C.:
Ma non è inclusa nell’album. È una cosa a parte. Lo apri, lo guardi e lo ascolti.
Evan B.:
Ci sono videoclip in programma per il futuro?
Justin C.:
Sì. In realtà stiamo lavorando a uno proprio adesso. È tutto in fase di sviluppo.
Evan B.:
Sono diretti da Adam Jones, il vostro chitarrista?
Justin C.:
Sì. Cioè, ci stanno lavorando diverse persone. Abbiamo del girato che non abbiamo mai usato e stiamo cercando di integrarlo. E poi abbiamo un paio di collaboratori che si occupano di CGI. È una collaborazione più ampia rispetto al passato, credo. Dovresti chiedere i dettagli ad Adam, ma sicuramente è un lavoro più corale di quanto sia mai stato. E sarà un mix di media. Sì, ci sarà del video.
Evan B.:
Fantastico.
Justin C.:
Sarà una figata.
Evan B.:
È per questo che siete i Tool. Per come riuscite a fondere i linguaggi. Tu come vedi il tuo ruolo nella band?
Justin C.:
Sono il bassista. Sono quello che tiene il groove. Non so… forse sono un mulo da lavoro. Sono davvero orgoglioso di poter scrivere musica e avere uno spazio dove posso proporre cose folli. Non è mai stato qualcosa che ho pianificato. Ho sempre solo pensato che certe idee sarebbero state fantastiche se suonate da un batterista, e che un chitarrista potesse suonarle con me. Ma non ero mai stato in un gruppo dove tutto ciò fosse davvero possibile. E ora, da 25 anni, sono in un posto dove posso creare cose folli e vedere Danny che mi guarda e fa: “Sì.” E inizia subito a suonare con me. Adam la adora, oppure ci costruisce qualcosa di completamente opposto. Ecco, a livello creativo, questo era davvero il mio sogno. Hai una bella idea e vuoi solo dire: “Questa è una gran bella idea”, e suonarla al mondo. Ma spesso le persone si sentono spinte a doverla adattare, modellare un po’, per farla rientrare in qualcosa che suona “come tutto il resto”. Io ho la fortuna di trovarmi in un posto dove posso farlo liberamente.
Justin C.:
Non dico che tutto venga accolto con entusiasmo, eh — però sono riuscito a far passare… beh, ci sono cose in questo album che non vedo l’ora che la gente senta, perché sono davvero folli. E gli altri mi hanno aiutato a dargli un senso, a trasformarle in qualcosa di compiuto.
Evan B.:
Il tuo basso è sicuramente una parte fondamentale del sound dei Tool. Una cosa che colpisce è la chiarezza che riesci a ottenere, soprattutto nei riff più complessi o che si muovono su corde diverse, dove il basso può diventare facilmente impastato e confuso. Hai qualche segreto da svelare su come ottenere quella chiarezza? Tecnica, EQ, effetti?
Justin C.:
Ci sono un sacco di fattori. Di sicuro, quando registro, mi do molte opzioni. Ho un amplificatore sporco, uno pulito, un segnale diretto. Questa volta avevo due segnali diretti: uno che passava attraverso tutti gli effetti, l’altro che li saltava. Così hai sempre un DI pulito a disposizione. E poi, durante il mix, puoi bilanciare questi quattro segnali diversi... Sembra esagerato, ma come dici tu, per ottenere chiarezza su tutta l’estensione del basso, a volte serve spingere un po’ di più… A seconda di cosa stanno facendo chitarra e batteria, puoi aumentare un segnale rispetto agli altri. Ad esempio, il suono sporco e saturo ha più presenza sulle alte frequenze, quindi magari spingi quello e riesci a farlo emergere su un certo fill di batteria. Ti dà delle opzioni, se lavori così.
Justin C.:
E non è così complicato. Puoi avere un DI pulito e un segnale che va all’amplificatore. Io in realtà uso due ampli, che è un po’ più costoso… Ti serve uno splitter, e devi mandare il segnale distorto all’altro ampli. Ma per le registrazioni è una cosa che ci aiuta davvero a trovare il giusto bilanciamento in ogni parte del pezzo.
Evan B.:
Chiaro, ok. Che corde usi?
Justin C.:
Oh, Ernie Ball.
Evan B.:
Davvero? Che scalatura usi?
Justin C.:
Credo fossero le Super Slinky: .045, .065, .085, e poi dovrebbe essere una .105, ma io uso una .110 per la corda più bassa.
Evan B.:
Ah, ok.
Justin C.:
Poi devo prendere una corda separata solo per l’accordatura drop-D. Suono anche alcune cose in Si-Mi, non su questo album, ma per quello uso un set a cinque corde. Per il Si uso, mi pare, una .135. E per il Mi una .105. Cerco semplicemente di bilanciare la scalatura in base alla nota, e trovo che faccia davvero una differenza enorme. Davvero. Se uso la .105 in drop B, diventa molle. Ognuno ha un tocco diverso. Io suono con il plettro, e picchio forte. Penso che ognuno debba semplicemente trovare quello che funziona per sé. Devi solo trovare quello che funziona per te.
Evan B.:
Ottimo. Avete resistito allo streaming per un bel po’, e di recente avete pubblicato tutto il vostro catalogo sulle piattaforme. Quindi non solo c’è un nuovo album, ma avete anche “rinato” digitalmente. Dopo tanta riluttanza, ora siete soddisfatti di essere nel mondo dello streaming?
Justin C.:
È stato piuttosto epico. Le ultime settimane sono state incredibili, vedere tutto uscire e diventare disponibile. E mi sconvolge il fatto che sia rimasto tutto così protetto... la pirateria era una vera preoccupazione, un tempo. Eppure, la nostra roba in qualche modo non è mai... cioè, si può trovare su YouTube, certo. Ma per questa pubblicazione ci abbiamo messo davvero tanta cura. Abbiamo rimasterizzato ogni singolo album in formato digitale. Abbiamo mandato tutto a Bob Ludwig, a Portland, Maine, che si occupa sempre delle nostre masterizzazioni. Ha anche rimasterizzato tutti i vecchi album in formato digitale, dopo cinque o sei anni di esperienza al massimo livello su produzioni destinate ai servizi digitali, ascoltandole poi in radio e ricevendo feedback. Credo sia davvero lo stato dell’arte, quanto a qualità. Suona un po’ diverso rispetto alla versione su CD originale. Ci sono pro e contro.
Evan B.:
Avete battuto alcuni record pubblicandoli tutti insieme.
Justin C.:
A quanto pare, sì.
Evan B.:
Molti brani in cima alle classifiche. E credo che Fear Inoculum sia stato il primo brano di oltre dieci minuti ad entrare nella Billboard Hot 100.
Justin C.:
La Hot 100, sì. Giusto.
Evan B.:
Fantastico.
Justin C.:
Onestamente, è stato molto emozionante. A questo punto non avevamo alternative. I CD non si vendono più. Era anche il momento perfetto, con l’uscita del nostro nuovo disco. Abbiamo anche lavorato molto con l’etichetta per assicurarci che ci venisse riconosciuto il giusto compenso. Sono state settimane piuttosto intense. Ho avuto la famiglia in visita, quindi ero un po’ distratto, ma ogni tanto guardavo il telefono per controllare le classifiche. È stato incredibile.
Evan B.:
Immagino sia curioso, perché tutti i contatori si azzerano. Rilasciate tutto il catalogo. È interessante vedere quali brani ascoltano davvero di più le persone.